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One Piece 1155: l’Apocalisse in due volti; Xebec, la D contro le D; Long Ring Long… Hell

del pirata Stefano 'Cenere' Potì

How many people lie instead of talking tall?
He trod on sacred ground, he cried loud into the crowd
I’m a blackstar, I’m a blackstar!

– David Bowie, Black Star

Salve genti, nuova analisi: qui si fa la storia.

Il capitolo 1155 è una tessera del domino.
No, detta così è riduttiva. Oggi occorre precisione.
Ecco: il 1155 è un’epifania narrativa, ma con l’ebbrezza sfrontata di un oracolo impazzito.
Altro che equilibrio drammaturgico. Oda lo getta alle ortiche e ci trascina in un’esplosione virulenta di fantasy logicamente ineccepibile. C’è il sadismo gratuito di Xebec, la minaccia diretta a Imu che finalmente giustifica quella vecchia foto di Teach conservata come monito, l’esaltante conferma del saturnino Davy Back Fight, e soprattutto la figura mefistofelica di Davy Jones come ispiratore sotterraneo di Rocks.
È anarchia pura.
Ma anche potere nudo, ribellione come fuga, romanticismo nero che accompagna la nascita di un infernale Jolly Roger pirata. Un’icona nera e febbrile che rende circolare l’idea gridata da un figlio in onore del padre: cambiano i secoli, cambiano le bandiere, ma i sogni no.
E il tam-tam narrativo non si ferma certo qui.

La saga muta pelle: dalla cornice goliardica di idromele e risate si scivola in un thriller scandinavo, plumbeo, implacabile, irriverente e bellissimo, che ci mette di fronte all’unica verità che conta:
le azioni di Xebec sono le azioni di una D.
Un disallineamento antropologico rispetto alla volontà di Roger e Garp, uno scarto selvatico che profuma di clandestinità: alleanze segrete, tradimenti sussurrati, e un antico rito — violento, codificato — che diede origine alla ciurma più feroce che la storia ricordi.
Ora, dopo anni di ipotesi fragili, possiamo incastonare la verità in una cornice finalmente solida.
Oda ci guarda negli occhi, e sorridendo come un bambino spinge la prima tessera del domino — lasciandoci contemplare il caos che, inaspettatamente, si fa coerenza.

È il momento dell’Elzeviro...

La grazia del tornado

Niente mini-avventura… ora che le cose si facevano interessanti?
Tipico del sensei, ma consoliamoci, sul numero 34 di Weekly Shōnen Jump, preparatevi a un tuffo oltre l’orizzonte: la magia di One Piece, a 28 anni di distanza, non ha perso un briciolo del suo smalto.

Ci sono storie che non si limitano a essere lette, ma che si vivono. Come mappe immaginarie, si dispiegano lungo gli anni, seguendo i sentieri tortuosi del tempo e della memoria, incidendo il proprio nome in quella zona franca dove il mito incontra la cultura pop.
One Piece è una di queste.
E oggi, a ventotto anni dal suo primo saluto sulle pagine di Weekly Shōnen Jump, Eiichiro Oda decide di festeggiare con il gesto più naturale e più affettuoso per un autore di manga: disegnare.

Lo fa con una cover a colori e una color spread speciale. Non un’operazione nostalgica, a mio avviso, ma un omaggio sentito, in cui l’autore giapponese ricompone la sua ciurma con quell’intelligenza visiva che non ha mai smesso di stupirci. Luffy e compagni appaiono ancora una volta insieme, non come icone stanche di un successo reiterato, ma come vecchi amici che si affacciano sulla soglia del tempo.
Pronti a salpare ancora.

Il contenuto: una doppia celebrazione. La copertina della rivista e una tavola a colori interna, entrambe firmate da Oda in persona, per suggellare l’anniversario di una saga che ha ridefinito le coordinate del fumetto d’avventura.
È difficile spiegare cosa significhi davvero questa ricorrenza per chi ha vissuto One Piece non come un semplice manga, ma come un compagno di viaggio. Ventotto anni sono l’equivalente narrativo della traversata oceanica dei Mugi. Pensateci.
Oltre mille capitoli pubblicati, milioni di copie vendute, una costellazione di personaggi che è riuscita, come poche altre opere contemporanee, a restare coerente nella metamorfosi.

Forse è anche questo il senso più profondo dell’omaggio: riaffermare l’idea che la creazione artistica — anche dentro i meccanismi feroci dell’editoria seriale — può ancora essere un atto di dedizione. Nonostante le pause, le malattie, le pressioni, One Piece continua a vivere con la stessa verve con cui è nato: un’epopea surreale e toccante, un elogio all’amicizia, alla libertà, all’inseguimento ostinato dei sogni.

E noi, lettori fedeli o ex marinai naufragati lungo la rotta, torniamo a osservare quella cover come si guarda il mare all’alba: con un misto di stupore (e un filo di malinconia), ma anche con la consapevolezza che la nave non si è mai fermata.

Ma è tempo di parlare di Xebec.
Un punto di fusione tra fedeltà e stupore: è riuscito a fa diventare la trama orizzontale non solo mezzo, ma medium. Leggere questo flashback è assistere al prodigio della continuità che diventa leggenda, quando un’opera, dopo anni, riesce ancora a superare se stessa — ed Elbaph lo fa placidamente, in silenzio, ma con la grazia norrena di un soffio che diventa un tornado.

Signore e signori: capitolo 1155…

L’Abisso come scelta

Elizabeth: Capitan Barbossa, sono qui per negoziare la cessazione delle ostilità contro Port Royal.
BarbossaUh, quanti altisonanti paroloni in una volta, noi non siamo che umili pirati… Che cos’è che volete?
ElizabethChe ve ne andiate per mai più ritornare.
BarbossaNon sono incline a ottemperare alla vostra richiesta… Vuol dire NO!
– Pirati dei Caraibi

Non so voi, ma al sottoscritto ricorda il dialogo tra Imu e Xebec.
Ricostruiamo tutto: ciò che sapeva, ciò che ignorava, le sue aspirazioni, le motivazioni da bussola impazzita quale fu.

Rocks si presenta privo di radici, senza patria né vincoli; a prima vista sembra mancare persino di motivazioni. Questo alone fuligginoso — unico, mai colto in ventotto anni di narrazione — lo incatena a un’immagine demoniaca, quasi evasa direttamente dall’inferno.
Ma, in termini pratici, come è arrivato nella stanza di Mu?
Tenete a mente che la parte monca della storia del padre di Teach è fondamentale, perché potrebbe tratteggiare le sue motivazioni (se ne esistono), come è bene ricordare che il Nero non dovrebbe averlo ‘conosciuto e vissuto’, avendo solo due anni alla sua scomparsa.

Xebec è mai stato a Laugh Tale? No. Quindi non possedeva tutte le informazioni, ma solo un’intuizione generale, un disegno incompleto ma abbastanza vasto da fargli percepire l’architettura ma non l’architetto. Quindi. Era a conoscenza di Imu? Non nello specifico, verosimilmente. Più che altro, credo ne avvertisse un sospetto fondato, non una certezza.
Perché?

A. Non sapeva leggere i Poneglyph. E anche se avesse potuto, quei testi non riportano la genealogia delle casate reali, né i meccanismi interni dell’élite mondiale. Robin, che li ha decifrati, non ha mai ricostruito i legami tra i sovrani — eppure, resta l’autorità indiscussa in materia di storia perduta. Segno che quel tipo di informazione, semplicemente, non è lì.
B. Inoltre, sappiamo che Rocks non era mai stato a Elbaph prima degli eventi narrati in questo flashback. Lo conferma il fatto che, appena sbarcato, chiede conferma a Loki (capitolo 1152): ergo non aveva mai letto il testo di Harley, né visto il murale inciso sull’Adam, almeno non quando incontrò Harald in fiamme dopo aver minacciato Imu.

Tutto ciò rafforza un’idea: era dotato di un istinto politico brutale, ma privo delle prove.
Si muoveva contro un nemico che intuiva, non che conosceva.
E questo lo rende ancora più pericoloso.

Forse, in un primo momento, il pirata puntava dritto ai Gorosei, convinto che fossero il vero centro decisionale della Terra Sacra — invece che marionette addestrate con consumata maestria. Non fu proprio Cobra a rivolgersi a loro in cerca di risposte? Oppure — sempre durante il Levely — potrebbe aver intercettato un frammento di conversazione che lasciava intuire come il vero comando risiedesse altrove, nel cuore del castello di Pangea. Da qui si può trarre una deduzione plausibile: Xebec ignorava l’esistenza di Imu. Rapì cinque sovrani per gettare la città nel caos e acquisire potere contrattuale, e volle affrontare gli Astri convinto che fossero l’ultimo gradino della gerarchia. Ma si ritrovò invece di fronte al Sovrano del Trono Vuoto. Fu in quel preciso istante che comprese la menzogna più colossale di tutte — e decise che quel trono doveva diventare suo?
Probabile.

O magari fu semplicemente più scaltro dei rivoluzionari, ed essendo un fanatico delle ‘verità del mondo’ si imbatté in alcuni particolari testi…

…ergo, non avendo accanto qualcuno — come nel caso di Sabo — in grado di suggerirgli l’ipotesi dell’“eminenza grigia”, scelse la via più lineare, e dunque più folle, presentandosi direttamente a Mary Geoise con i pantaloni di vigogna, come chi bussa a casa d’un vecchio conoscente. Suonò il campanello, si pulì con cura gli stivali sul tappetino di benvenuto, poi prese degli ostaggi, seminò il panico e minacciò nientemeno che il Re dei Re.
Ecco, questa versione mi convince di più.
Aderisce con precisione quasi chirurgica al profilo teatrale e sociopatico del personaggio: un misto di hybris, megalomania e gusto per la messa in scena, che lo spinge non solo a sfidare il potere, ma a farlo nel modo più plateale e autolesionistico possibile.

Avete notato lo sguardo di Xebec?
È l’espressione febbrile di un fanatico, accesa da una luce che non ha nulla di razionale.
In questo momento, incarna alla perfezione il concetto stesso di Haki del Re: non un semplice potere, ma una volontà che travalica ogni gerarchia, ogni struttura.
È la forza di chi non riconosce nessun altro al di sopra di sé, anzi, si annoia davanti a chi pretende di comandarlo. Cinque marionette come gli Astri l’avrebbero lasciato indifferente, forse perfino annoiato, ma quando ha compreso l’essenza di Imu…

… E’ andato su di giri. Come se l’esistenza di un potere così oscuro, così assoluto, fosse l’unica cosa in grado di rendergli davvero giustizia. Di dargli un avversario degno.

Ora prestate attenzione ad un dettaglio fondamentale. Che non vorrei venisse offuscato dalla nostra partecipazione emotiva, vista la portata degli eventi:

Ricordiamo che il cartiglio ha una funzione nettamente diversa dal balloon, non è legato al parlato dei personaggi, bensì alla voce narrante o a commenti esterni alla scena.
Una sorta di “commento fuori campo”.
In soldoni:
A – se Xebec l’ha detto a Imu, lo fece per ricordargli qualcosa di antico di cui è a conoscenza e minacciare, facendo intendere che la sua voce ha ‘peso’.
B – Oda l’ha sottolineato per i lettori, ci sta avvisando che il significato di retcon è ‘adattare’, non ‘stravolgere’, come abbiamo visto per il tatuaggio dei giganti Galleyra a Punk Hazard.
E questo, ci porta dritti dritti a Davy Jones.

Pensavamo di aver visto di tutto nell’universo di One Piece? Ma quando mai.
Non tutti gli echi che provengono dagli abissi sono silenziosi. Alcuni, come certi giuramenti bisbigliati nella pancia della storia, attraversano i secoli sotto forma di promesse — o minacce — incastonate nel codice stesso della leggenda. E così, tra le pagine dei questo capitolo già di per sé destabilizzante, si materializza una rivelazione che ha il sapore del gorgo mitico: Rocks D. Xebec si presenta dinnanzi a Imu con un nome sulle labbra. Quello di Davy Jones.
Un “ammiratore”, ci dice il narratore. Una parola scelta con cura, che nel linguaggio criptico e calibrato di Eiichiro Oda… pesa come un macigno. È come se Dante, giunto a colloquio col suo Lucifero, avesse cominciato con una citazione di Ulisse. Non una dichiarazione d’intenti, ma una dichiarazione d’identità.
Xebec lo fa con un intento ben preciso.


Per un attimo, è parso come se il Pirata avesse detto al Re: hai capito ora di che pasta sono fatto?

E allora fermiamoci. Respiriamo.
Perché questa non è l’ennesima rivelazione da capitolo settimanale, ma un frammento di mitologia interna che — nel silenzio della Stanza dei Fiori — fa esplodere una domanda che dopo la saga di Foxy e certe SBS non mi sarei mai posto: chi era davvero Davy Jones, e cosa rappresenta per i pirati di One Piece?Fino a oggi, sappiamo ben poco.
Una leggenda sussurrata tra i flutti, evocata per spiegare il macabro rituale del Davy Back Fight, quella sfida carnevalesca e cannibale in cui i pirati si contendono gli uomini delle ciurme come se fossero pedine da scacchiera. In quell’occasione, Robin — ricordiamolo, la voce colta e razionale della ciurma — spiegava che Davy Jones era un pirata dell’antichità, condannato a vivere sul fondo del mare, raccogliendo ogni tesoro, ogni corpo, ogni frammento di storia inghiottito dalle acque.
Poi, in una delle sue celebri SBS (volume 38), Oda ci aveva regalato un piccolo cammeo interpretativo: Davy era, nella sua versione, un pirata bugiardo, un secondo di bordo avido, punito dal Diavolo a un’esistenza eterna negli abissi. Una figura grottesca, certo, ma potentemente simbolica. Il signore delle cose perdute. Il guardiano delle profondità. Il collezionista di ricchezze oltre la vita.
Cioè, rendiamoci conto, questo vecchietto dovette essere fermato da Satana in persona.

Ed eccolo ora riemergere, attraverso la voce di Xebec, l’uomo-destabilizzazione, colui che già nella sua stessa iniziale — quella “D.” che aleggia nel suo caso non come ribellione, bensì un marchio di dissidenza cosmica — rappresenta un punto di rottura. Si proclama Ammiratore di Davy Jones.
Un fan sfegatato di un dannato di Satana fa confidenze a un altro diavolo…
Non avete sentito nell’aria anche voi quel gelo che sa di presagio?

Qui torna quel vecchio motto marinaro, “mandarlo nel baule di Davy Jones”, che prima pareva solo folklore: ora diventa ideologia?
Come un canto di alcune sirene, che ammalia ma non chiama al largo, bensì richiama verso il fondo. Chiedo venia, per un attimo era l’amante del dark fantasy che è in me, a scrivere. Ad ogni modo. Parleremo ancora di Jones nel paragrafo del DBF e la genesi dei Rocks: è nella natura stessa dell’abisso richiamare l’abisso.

Cosa non dimenticherò mai di questo capitolo?
L’intelligenza di Xebec. Ha visto oltre l’ego, ha calcolato, ha atteso. E mentre Imu, con l’aria di chi ha sempre la risposta pronta, giocava con le farfalle e si rivolgeva a sé stesso come un imperatore decadente, eccolo improvvisamente lì: occhi sgranati di fronte alla risposta di un solo, singolo, beffardo pirata.
Il padre di Teach guarda dritto in faccia il demone che tira le fila del mondo da secoli, e senza battere ciglio lo sbeffeggia:
«Re? Ma smettila. Ti nascondi come un topo. Posso raggiungerti quando e dove voglio.
D’ora in poi dormi con un occhio aperto».
Che personaggio immenso, mes amis.

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Incompleti

‘Che ne sapevo, che ne sapevo
delle aspre e solitarie cure dell’amore?’
– Robert Hayden, Quelle domeniche d’inverno

Un rapido passaggio su Gunko e Loki — giusto per non far torto alla cronaca — poi si torna a frugare a mani nude nel buio: Xebec, i Rocks… e naturalmente Teach.

E’ curioso vedere la ragazza come ancella personale di Imu. Questo vincolo particolare nasconde un paradosso: il suo “padrone” ha forse distrutto la sua famiglia, perché allora la terrebbe al proprio servizio? Se tenesse a lei, ne custodirebbe memoria, identità, ricordi.
In questo caso la mia lettura non poggia su prove tangibili, bensì su terminazioni nervose e recettori mnemonici; è la stessa impressione che mi spinse, al primo sguardo, a percepire in lei un’orfana.
Per di più diversa dagli altri cavalieri. In fondo, a volte, è questione di sensazioni più che di fatti.

Comincio a domandarmelo con insistenza sempre maggiore: Mu resta in quelle stanze per propria volontà… o perché non può uscirne? Gunko è ancella devota o silente custode armata? Il dubbio mi è venuto da un po’, e persiste. È possibile che il sovrano invisibile del mondo sia prigioniero di limitazioni fisiche, costretto a rifugiarsi in uno spazio protetto, legato a un corpo che non gli appartiene per poter esercitare i propri poteri? E, soprattutto, quelle capacità riversate nella ragazza — possono essere recise soltanto con la sua eliminazione, come accaduto a Saturn?
Un’idea degna di nota mi ha appena sfiorato.
E anche se non potete vedermi, immaginate pure il ghigno smaliziato di uno squalo in giacca e cravatta.

Immaginiamo che Mu sia costretto a servirsi di corpi altrui per manifestare il proprio potere; anzi, più semplicemente, che scelga di incarnarsi in uno solo per evitare di esporsi pubblicamente, pur conservando intatta la sua forza.
Non credo riversi quell’immenso potere in molteplici soggetti, bensì in un unico prescelto, sempre al suo fianco o inviato in missione come un ‘monitor’ esterno (tipo a Elbaph).
Perché? Ancorare e soggiogare l’io di un singolo individuo è un conto; controllare simultaneamente più entità è ben altra faccenda.
Considerando che per eliminare Saturn gli furono sottratti i poteri, è plausibile che, allo stato attuale, Gunko rappresenti un suo vettore — quindi la fanciulla pesta come un fabbro — motivo per cui Imu la tenga sotto stretta sorveglianza. Sarebbe davvero emozionante assistere a una scena in cui Brook riesce a risvegliarla dal torpore, liberandola attraverso uno dei linguaggi più ancestrali e universali: la musica, che Gunko ama profondamente. Poi, vederla scatenarsi contro i suoi veri nemici — magari non Mu in persona, ma contro i Cavalieri di Dio, ve lo giuro… potrei andare in estasi.

Nel caso del principe, invece, il rapporto con suo padre emerge sfumato di una nuova intensità emotiva… ma troppo tardi, in quanto non li ha mai preso come modello di riferimento. Harald, ritorna precipitosamente da una spedizione al sentire che Loki è stato ferito. Nonostante il figlio sia quasi completamente guarito, lo ammonisce amorevolmente: “Non tornare più nell’Underworld, sei forte, ma è un posto pericoloso”. Attenzione, qui si gioca sul filo del rasoio, perché al reggente manca una moglie con cui fare squadra, le stesse vecchie tradizioni vietano a Hilda di accedere al castello, mentre Harald combatte h24 per sradicarle e portare più serenità a tutti, eppure, nel frattempo, le stesse idiosincrasie del Warland fanno sì che i collaboratori del sovrano mentano sulla falsa maledizione del figlio, che intanto continua a coprirsi gli occhi, sentirsi diverso e ostracizzato, insomma: è un circolo vizioso.

Vi presento la scena da due angolature, così da vedere padre e figlio nel complesso.
La doppia pagina iniziale ci sorprende con Loki fasciato da bende, nel castello reale. È stato colpito senza pietà da Xebec, ma quando arriva Harald l’immagine cambia, il re abbandona ogni dignità regale per chinarsi sul figlio, pronto a curarne le ferite con le proprie mani. Un gesto che parla più di mille proclami: Harald, temprato nelle guerre passate, resta prima di tutto un padre ﹣ e questo, sul campo di battaglia della Storia non è mai scontato. Anzi.
Loki ricambia con un misto di sollievo e orgoglio ferito: non menziona chi lo ha ridotto così, e lascia che il padre creda a una caduta accidentale. Quel silenzio è un pomo della discordia che Oda lancia tra i due, facendoci capire che il giovane principe (sebbene grato, quasi incredulo) nutre per Harald un sentimento complesso, fatto di stima e al contempo risentimento.

Ironia della sorte.
Se Loki avesse raccontato l’accaduto, la reazione del re gli avrebbe fatto capire immediatamente quanto il padre l’amasse.

E proprio nonostante l’amore paterno, che le divergenze ideologiche creano barriere emotive. La figura di Harald, pur essendo un leader rispettato, appare in questo contesto come un genitore incapace di vedere cosa gli succede sotto il naso, non tanto questa volta, ma in tutte quelle che Loki e Hajrudin sono stati vittime di angherie.
Nel meraviglioso numero di Dylan Dog ‘Il sogno della Tigre’, il narratore onnisciente canta alla luna:
Una voce dentro mi urla distruggi,
distruggi perché amare non potrai

Un albo meraviglioso le cui parole si adattano a Loki, ve lo consiglio.


Quindi al contrario di Hajrudin che fu compreso e amato, Loki incarna la speranza di un futuro diverso, senza sacrifici personali e con un senso del diritto assoluto, in quanto carico di risentimento verso il prossimo. Non c’è da stupirsi se vada in sollucchero di fronte al menefreghismo totale di Xebec.

In sintesi, la tensione tra il principe e Harald non è una questione personale, bensì riflette le peggiori abitudini di qualsivoglia società poco evoluta, ossia ignoranza, superstizione e boria.

Bastian contrari

‘La gente, efficacemente manipolata ed organizzata, è libera: ignoranza, impotenza ed eteronomia introiettata costituiscono il prezzo della sua libertà.’
– Herbert Marcuse, Eros e civiltà

Xebec è forse la prova definitiva che la volontà della “D.” non è un vincolo mistico, né un marchio predestinato. Oppure, al contrario, è l’indizio più eloquente che esista un sangue, o forse un impulso, legato istintivamente alla ribellione, anche quando assume forme distruttive.
E vi dirò: tolto il picchiare un bambino mentre ride, l’abitudine a ingannare chiunque gli capiti a tiro e una certa propensione alla malvagità senza filtro… Xebec comincia davvero a piacermi.
Il nodo, alla fine, è uno solo:
perché una “D.” dovrebbe scagliarsi contro le altre?
Parlo del tridente Garp, Roger e Xebec, ovviamente.

Anzitutto, siamo abituati a vedere da sempre determinati equilibri:

Polo positivo, chiarezza – Monkey D. Luffy, Monkey D. Dragon, Monkey D. Garp, Portgas D. Ace, Gol D. Roger, Portgas D. Rouge, Trafalgar D. Water Law, Jaguar D. Saul.

Polo negativo, ambiguità: Marshall D. Teach, Rocks D. Xebec.

Pensiamo a God Valley.
È da un paio d’anni che ripeto la stessa perplessità, tre portatori della “D.” che si affrontano. Due di loro — seppur mossi da intenti nobili e indirettamente — finirono per fare il gioco del Governo, pur di fermare Rocks e la sua ciurma. Eppure, oggi sappiamo qualcosa in più: Imu aveva fatto i compiti a casa. Per secoli ha orchestrato una damnatio memoriae su scala globale, cancellando nomi, volti, eredità.

Quindi… “D”? Quali D? Siamo di fronte a gusci svuotati, simboli svincolati dalla loro sostanza originaria.

Questo capitolo, da un punto di vista informativo, non ci rivela nulla di radicalmente nuovo. Sono tasselli che, chi segue attentamente la trama, ha già ricostruito da tempo.
Eppure, c’è qualcosa di essenziale che emerge: la consapevolezza che Xebec ha costruito la storia quanto Roger. Come ho sottolineato in diversi articoli recenti, le foto che Imu teneva d’occhio prima di Barbanera e Luffy erano probabilmente quelle di questi nomi dimenticati — perché da lì parte tutto.

Gol ha inaugurato nuovamente l’era della pirateria, subito dopo Laughtale, ma Xebec ha codificato (non intenzionalmente) il sistema che costringe il Governo Mondiale a compromessi ed equilibri.
Gli Imperatori.
Cosa serve per esserlo?
Probabilmente molti ripeteranno il parallelo che sto per mostrarvi, quindi ricordate dove l’avete letto per la prima volta, mes amis. Riprendendo, serve…


Indipendenza economica

Territori sotto il proprio comando

Una ciurma di sottoposti potenti, e un congruo numero di seguaci

E… peso politico.

Xebec puntò a quello più pericoloso per il governo, ricordate le parole di Gunko?

… il pirata aveva già perfettamente a mente l’unica minaccia in grado di destabilizzare Imu.
Da qui, quasi tutti gli Imperatori usano lo stesso schema per farsi riconoscere dai Draghi Celesti:

  • Buggy si crea una forza lavoro composta da giganti
  • Luffy vi entra in contatto senza intenzione diretta ma li aggrega, ma lui è diverso, motivo per cui è stato scelto da Nika come vettore
  • Shanks (dopo Foshaa, appena Luffy ingerisce il frutto) va a fare base a Elbaph
  • Newgate si era ritirato da qualunque competizione, quindi non prese contatti
  • Kaido emulò malamente il sistema con i numbers comprati da Orochi
  • Big Mom copierà direttamente l’idea, mirando costantemente ad una alleanza con quel popolo

Il Davy Back Fight, per Xebec, è lo sciroppo d’acero sul pancake quale per lui è il mondo.

Shiki è complementare al suo leader — che neppure riconosce come tale. Intuisce che insieme sono una forza con cui fare i conti, ma attende solo il momento giusto per infilargli una lama tra le spalle.
Tenterà perfino di piegare Roger, di trasformarlo in un sottoposto. Ma lo spirito più libero del mondo gli risponde con disarmante semplicità: non gli interessa comandare nessuno. Vuole solo vivere come gli pare, e lo annienta.
La Stussy originale è tutto ciò che il clone ha rifiutato di essere: spietata, avida, ossessionata dal potere. È l’archetipo del MADS base, lo starter pack.
Don Marlon, dal canto suo, era la via primigenia del gangster tramite razionalità, piombo e ambizione cieca. Insieme a Miss Buckingham getta le basi per il piano più sordido di sempre.
Xebec decide di prendersi l’Alveare — una sorta di Impel Down ante-litteram — e farlo passare per un’operazione di pulizia. Offrire al Governo la possibilità di “ripulire” un’anarchia fuori controllo, intascare i fondi… e poi tenersi tutto.
L’isola, i criminali, le vene d’oro. E pure i soldi di chi li voleva fermare.

Diamine, se devi fare qualcosa, falla bene.

Il Nero segue le orme del padre, poiché una sola cosa tiene insieme i Rocks, rendersi conto di avere gli stessi obiettivi… momentaneamente.
Vi ricorda una certa filosofia?

Eppure Teach ha un sogno nitido, diretto.
È una mia impressione, certo, ma credo che coincida con quello del “padre” solo in un punto preciso — e profondamente simbolico. Barbanera, a differenza dei Rocks, mostra un reale interesse per la sua ciurma. I suoi sottoposti lo ammirano, condividono il suo sogno, lo seguono non per paura, ma per convinzione.
Già questo lo colloca agli antipodi rispetto al pensiero-manifesto di Xebec, fondato sull’egolatria e sull’annientamento dell’altro.
Di Teach ricordiamo due volte le lacrime. E non casuali.
Lo vediamo sinceramente convinto mentre tenta di portare Aokiji dalla sua parte.
Crede davvero nel proprio ideale di pirateria.
Riconosce in Luffy un riflesso distorto ma familiare, e in quella somiglianza c’è rispetto, forse persino un’ammirazione non dichiarata.

Sapete cosa penso?
Che il Nero abbia lo stesso sogno del padre — ma per ragioni profondamente diverse, e con fini radicalmente opposti.

Come ho più volte scritto in queste pagine, Teach aspira a rivoluzionare il mondo, desidera — al pari di Luffy — abbattere un sistema che tosando la libertà degli individui li trasforma in pecore. Ma se le loro ambizioni sembrano speculari, perché sono agli antipodi e non si alleano?
La risposta si nasconde nello stesso enigma per cui Rocks fu la D contro le D.
A God Valley, quel confronto epocale non fu solo uno scontro di potere, ma una collisione di visioni: Xebec non avrebbe certo fatto distinzioni tra innocenti e nemici, scatenando una carneficina senza limiti. O forse si temeva che la sua ciurma, una volta in possesso di un potere così smisurato, avrebbe potuto perpetrarne di ben peggiori nel futuro.

In ogni caso, la loro battaglia è più di una semplice faida; è l’incisione profonda di un punto di svolta, l’eco di un passato che ancora plasma il presente.
Vi faccio un esempio seinen.
Che differenza c’è tra Grifis e Gatsu?
Il primo, inizialmente spietato ma buono, pur amando profondamente la squadra dei Falchi, si erge su un cammino composto dai cadaveri dei suoi compagni, di innocenti, di persone che anch’esse che hanno sogni e desideri.
Gatsu non lo farebbe mai, non calpesta nessuno, nemmeno quando brancola nella follia più cieca. La sua forza viene da una resistenza irriducibile, animalesca e al tempo stesso tragicamente umana, contro tutto ciò che cerca di ridurlo a pedina.

Non ha un sogno da imporre: ha un’esistenza da strappare, centimetro per centimetro, al nulla.
Un Luffy in versione ecatombe.

Grifis rappresenta l’idea platonica del potere: glaciale, totalizzante, intoccabile. Gatsu invece resta fedele a un principio etico che non può essere mercanteggiato, nemmeno in cambio della salvezza.
Parallelamente, in One Piece.
Xebec è disposto a distruggere tutto pur di raggiungere la meta; mentre Roger distrusse se stesso, pur di fare la scelta opposta.
E Teach e Luffy sono l’estroflessione di tali volontà, ma, seguiranno lo stesso percorso?
Ecco la revolverata emotiva che introduce la storia dei Rocks.

In chiusura, spiego il motivo dell’ammirazione che provo per Xebec.
Giusto per fornirvi uno spunto di riflessione.
In una società dove l’individuo si crede libero, è spesso l’inganno stesso a reggere le fondamenta della sua apparente autonomia. Quando il pensiero è stato educato a desiderare ciò che il potere vuole, e la volontà è stata addestrata a scegliere solo ciò che è già stato predisposto, la libertà non è più una conquista — ma una concessione.
Pensate che tale pensiero fosse tollerabile per Xebec?
Oda ci mette di fronte a un paradosso inquietante. L’individuo, in One Piece, si sente padrone di sé; ma in realtà ha interiorizzato le regole del gioco fino a confonderle con i propri bisogni. L’eteronomia — ovvero il vivere secondo leggi non proprie — diventa una seconda pelle, al punto da essere scambiata per libertà.
Il prezzo di questa illusione?
L’ignoranza, che tramite la mancanza d’informazione, diventa incapacità di vedere il meccanismo che manipola i desideri. I sogni. L’impotenza, che non nasce dalla forza dell’oppressore, ma dalla rassegnazione di chi ha smesso di immaginare alternative. E infine, l’adesione silenziosa a un ordine che si riproduce proprio attraverso il consenso inconsapevole dei suoi sudditi.

Così, nella civiltà comune, non è necessario il carcere per reprimere: basta che ognuno creda, profondamente, di essere già libero. Rocks fu una canaglia e un bastardo, ma il moto reazionario nel comprendere un mondo fittizio fu giusto, quindi, sarà Teach a portare a compimento la minaccia del padre. Sporco, brutto, cattivo, si, il figlio di Xebec è il ritratto amaro ma lucidissimo di una società che ha saputo camuffare la costrizione sotto le spoglie della scelta.
E a Teach questo non va bene… non va bene per niente.

Come sempre vi linko il video del Re, una timeline certosina degli eventi che legano padre e figlio, dove l’ironia si fa contrappunto e il rigore della ricostruzione promette chiarezza. Un must.
A voi!


A pugni col mondo

Spero di avervi intrattenuti, spinti a ragionare e riflettere.

La saga dei vichinghi tanto bramata dal sensei, ora capisco perché.
Dai ghiacci che avvolgono i ricordi dell’Harley, si passa a un nome sussurrato con paura nelle notti di bonaccia, la firma visiva e narrativa della quintessenza pirata: Rocks D. Xebec.
Un funambolo sulla cresta dell’eterna dannazione.

Il suo rapporto con Roger spero si rivelerà un duello di spiriti affini ma contrapposti: entrambi sedotti dall’orizzonte dell’ignoto, eppure divisi da una prospettiva etica in continuo mutamento. Se Roger è un saltimbanco anarchico che sorride a qualunque rotta impossibile, Xebec vi approda con il ghigno di chi cede alla fascinazione per l’ignoto, a quella voglia matta che l’uomo ha sempre avuto di dare un volto — magari terrificante — a tutto ciò che non riesce a dominare.
Se davvero il mondo di One Piece si avvicina al suo redde rationem, allora oggi abbiamo ascoltato la voce del suo abisso. E quella voce non dice “libertà”. Non dice “conquista”. Dice solo: Davy Jones.

E chi sa leggere i miti, sa bene che è da lì che cominciano le catastrofi.

Godiamoci il viaggio, genti

‘Something happened on the day he died
Spirit rose a metre and stepped aside
Somebody else took his place, and bravely cried
I’m a blackstar, I’m a blackstar!’
– David Bowie, Black Star

Cenere

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